Non scrivere l'8 marzo per riscrivere l'8 marzo


Ho passato giorni a pensare cosa scrivere per l'8 marzo. Qualcosa di culturale? Di letterario? Di politico? Alla fine, ho preso una decisione drastica: non ho scritto nulla. Non perché non avessi niente da dire, né perché creda che fare divulgazione in questa data sia sbagliato. Anzi. Proprio perché ritengo fondamentale riflettere e acquisire consapevolezza, e visto che, a causa dello sciopero dei mezzi, non ho potuto manifestare in piazza, ho scelto un altro modo di protestare: il silenzio. Un silenzio che non è disinteresse, ma rifiuto della retorica con cui questa giornata viene raccontata.

Perché l’8 marzo, come il 25 novembre, è diventato – o forse lo è sempre stato e i social hanno solo amplificato la cosa – il giorno in cui tutti devono dire qualcosa per forza. Le aziende postano immagini di donne sorridenti accompagnate da slogan motivazionali, i comici e gli attivisti (spesso uomini) realizzano reel pseudo-divertenti per "supportare la causa". Un esempio emblematico è stato il video di Checco Zalone: prevedibile e, francamente, patetico. Mentre l'8 marzo venivamo sommersi da questi contenuti, nulla è cambiato: il patriarcato è ancora lì e le discriminazioni di genere restano immutate. I politici si affrettano a dichiarare che le donne sono “una risorsa preziosa per il Paese”, mentre continuano a votare leggi che le penalizzano. Una a caso? La stanza dell'ascolto del battito fetale negli ospedali. I negozi propongono sconti “per tutte le donne”, come se una promozione speciale fosse il riconoscimento di una battaglia storica. È una vetrina perfetta, che rassicura senza disturbare.

Ma l’8 marzo non è mai stato questo. Negli anni ’70, durante la seconda ondata femminista, si trattava di una giornata di lotta. Non un’occasione per parlare genericamente di donne, ma il culmine di un lavoro politico costante, portato avanti nei collettivi, nelle case, nelle fabbriche. Il femminismo non era un discorso, era una pratica. Si scioperava, si manifestava, si agiva per cambiare concretamente la vita delle donne. Il diritto all’aborto, al divorzio, la denuncia della violenza domestica non sono arrivati grazie a belle parole, ma grazie all'autodeterminazione di chi ha scelto di occupare lo spazio pubblico con la propria voce e il proprio corpo.

Oggi, invece, l’8 marzo sembra servire più a mettere in scena un femminismo accettabile, che non disturba e non chiede troppo. Un femminismo che piace alle aziende (come quello di Freeda), che diventa merchandising, che si trasforma in prodotti rosa con messaggi di empowerment stampati sopra. Un femminismo che non è più una minaccia, ma un’ottima strategia di pinkwashing: la causa come strumento commerciale.

Angela Davis ha messo in evidenza come il femminismo, quando si scontra con il capitalismo, rischi di ridursi a un’estetica, a una narrazione di empowerment che non mette in discussione le disuguaglianze strutturali. Allo stesso modo, Nancy Fraser ha denunciato come il femminismo neoliberale abbia dirottato le lotte verso una visione individualistica del successo femminile, dimenticando che la vera emancipazione non è un privilegio per poche, ma una conquista collettiva. E il risultato è che, riempiendo questa giornata di parole, l’abbiamo svuotata di significato.

Pensiamo alle problematiche quotidiane. Sono anni che, in Italia, più di cento donne vengono uccise ogni anno da compagni, ex mariti, familiari maschi. Solo nel 2024, Non Una Di Meno ha registrato 114 femmini-lesbo-transicidi. Eppure, ogni volta si riparte da zero, come se il problema fosse sempre individuale e mai sistemico. Come se bastasse indignarsi per qualche giorno e poi tornare alla normalità. 

Eppure qualcosa è successo. Alla vigilia dell'8 marzo, il governo ha varato una legge significativa: l’introduzione del femminicidio come reato specifico nel codice penale. Un passo avanti, forse l’unico realmente sensato compiuto da questo esecutivo in materia di diritti civili. Ma possiamo davvero accontentarci? Possiamo dire che il problema sia risolto solo perché sono state introdotte nuove pene, senza interrogarci sulle radici della violenza? Non smetterò mai di ribadirlo – e con me tutte le sorelle: per eliminare le discriminazioni di genere serve un lavoro strutturale, che parta dalla famiglia, dalla scuola. Serve un'educazione sessuo-affettiva a ogni livello e grado.

Lo scrive anche Silvia Federici in Il punto zero della rivoluzione (2013), in cui approfondisce il legame tra violenza patriarcale e sfruttamento economico. La violenza sulle donne non è un'emergenza, ma un fenomeno sistemico:
La violenza sulle donne non è un’emergenza, né una devianza: è una strategia sistematica di controllo, radicata nelle strutture economiche e sociali che regolano le nostre vite. Senza un cambiamento radicale nelle condizioni materiali dell’esistenza, continueremo a rispondere alle aggressioni sempre troppo tardi, quando il danno è già stato fatto." (p. 25)

La repressione penale, da sola, non basta. Serve un cambiamento radicale delle strutture sociali ed economiche che alimentano questa violenza. Serve investire in educazione, indipendenza economica per le donne, servizi di supporto come asili nido, consultori e centri anti violenza. Altrimenti continueremo a intervenire solo dopo, a tragedia già avvenuta.

Il femminismo, oggi, è in una fase di profonda crisi e trasformazione, è evidente. È vero che si parla più di prima di sessismo sul lavoro, di violenza ostetrica, di parità salariale. Ma è altrettanto vero che il femminismo è sempre più osteggiato. Il backlash, ovvero il contraccolpo antifemminista di cui parla Susan Faludi, è evidente nei discorsi d’odio che colpiscono chi lotta per i diritti, negli attacchi costanti alle conquiste femminili, nel tentativo di delegittimare chi denuncia le ingiustizie.

Se vogliamo che l’8 marzo torni ad avere senso, dobbiamo smettere di trattarlo come una celebrazione e riprenderlo come giornata di lotta. E non basta parlarne: bisogna agire. Bisogna scioperare, come fanno i movimenti femministi in Spagna o in America Latina, dove l’8 marzo è una giornata di blocco reale. Bisogna smettere di trattare il femminismo come un argomento da esibire quando fa comodo, e iniziare a viverlo ogni giorno, nella pratica.

Per questo non ho scritto nulla l’8 marzo. Non ho voluto che questa giornata fosse solo l’occasione per pubblicare un contenuto in più. Non voglio contribuire a un femminismo di superficie, che si esaurisce nei like e nelle condivisioni. Voglio che sia un giorno di azione, di presenza, di cambiamento reale. 

Non scrivere l’8 marzo è stato il mio modo di riscriverlo. 

Ma la vera sfida è continuare a farlo ogni giorno, lontano dai riflettori, fuori dalle logiche del consumo, nella vita reale.

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