#1 - Catarsi

Il bagno è pronto: abbastanza caldo perché il mio corpo vi trovi la sua attinenza. A piedi nudi, lascio cadere lentamente i vestiti sul pavimento, con la lentezza di chi vuole prolungare il tempo più del dovuto. Il calore sulla pelle è piacevole. Eppure, nel gesto si insinua un’incertezza. Il tempo qui sembra quello sospeso delle analisi del sangue: i vestiti scivolano lungo il corpo senza che io li guardi. A dire il vero, non guardo il mio corpo. Lo sfioro, appena, con fatica.

Avere un corpo è un atto difficile. Soprattutto quando il rapporto con esso è un’altalena di amore e odio. Non sono costanti le singole pulsioni, ma è costante la tensione tra le due. Basta un tocco, e i peli delle braccia si drizzano. Brividi. Poi mi ricordo che le braccia sono coperte di peli. E di grasso. Mi sembrano enormi, eppure so che non è così. Eppure le vedo più spesso così, piuttosto che per ciò che sono. Poi mi ricordo che anche il mio corpo è ricoperto di grasso. O di pelle. Fa differenza? Lembi rosa, segnati da smagliature, nei, imperfezioni invisibili agli altri ma con cui faccio fatica a convivere.

Ecco, ci sono caduta di nuovo: la trappola dell'autolesionismo visivo. Basta. Devo entrare in doccia e spegnere il cervello. L’acqua mi aiuterà.

Entro nella cabina, apro il getto, regolo l’intensità, la temperatura. Questo passaggio, nella frenesia della mia vita, dura sempre più del dovuto. Ho letto su un blog che le docce lunghe sono il segno di una persona sola. Le mie docce durano sempre un sacco, ma solo perché i pensieri scorrono con l’acqua. E neanche l’acqua riesce a fermarli.

Afferro la spugna, verso un fiotto di bagnoschiuma ai frutti di bosco, il mio preferito. Funziona come una droga: mi distrae, mi anestetizza. La bagno, inizio a insaponarmi. Parto dai piedi. Non è un caso. Man mano che salirò, mi ritroverò davanti allo specchio del lavandino. E vedrò il mio corpo. Qualcuno direbbe che sia narcisismo. Ma non lo è. È un esame. Un controllo. Per accertarmi che sia tutto a posto, che nulla sia fuori posto. Per vedere se, da un giorno all’altro, qualcosa è cambiato.

Passo la spugna su ogni lembo di pelle, ogni arto. La mia intimità, la pancia, i seni, le spalle, il collo, la schiena. Poi, di nuovo, in posizione eretta. E il mio sguardo finisce sullo specchio.

Chiudo l’acqua.

Silenzio. Solo il ronzio della ventola dell’aspiratore.

Chissà se anche le altre lo fanno. Chissà se anche quelle che si sentono perfette si guardano allo stesso modo. Chissà quante combattono con la stessa malattia: la società che dei corpi fa mercato, pubblicità, metro di paragone, oggetto di desiderio e di vergogna.

Il pensiero è irrefrenabile. Non penso di poterlo riprendere facilmente. C’è solo un modo per interromperlo.

L’acqua.

Il getto riprende, trascina via il sapone. E forse anche tutti i pensieri. Il peso di avere un corpo sempre esposto, anche quando lo si nasconde. Anche a sé stesse.

Esco dalla doccia. Goccioline d’acqua scorrono veloci sulla pelle. Il profumo del bagnoschiuma mi riempie il naso. Eppure, non ha sortito l’effetto che speravo.

Mi avvolgo nell’asciugamano. Di nuovo quel calore iniziale. E, all’improvviso, capisco.

Se non avessi la pelle, il corpo, non potrei provare quell’istante di inutile piccola felicità. Se non avessi un corpo, è vero, non sentirei dolore. Ma forse non riuscirei neanche ad amare. Ad essere amata. A sentire l’impeto e la tempesta che fare l’amore ti dà e ti restituisce.

Se non avessi un corpo, non proverei il fiatone dopo una corsa veloce. Il sapore di un piatto buono. La pancia che fa male dopo una risata improvvisa. L’ansia nell’attesa di un risultato. L’abbraccio di qualcuno che non vedi da tanto. Il freddo del primo gelato della stagione. La morsa del vento. La pioggia improvvisa.

Avere un corpo mi ricorda che posso vivere, che vale la pena averlo. E forse rispettarlo.

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