WE LIVE IN TIME: IL TEMPO DELL'AMORE


Per San Valentino, al cinema, non poteva esserci film più adatto di We Live in Time. Di solito, prima di guardare un film, mi informo un po’, cerco recensioni, curiosità, dettagli sulla produzione. Questa volta, invece, ho deciso di fidarmi solo del trailer, che mi è sembrato promettente. Certo, già dalle prime immagini si percepiva un’aria familiare, con situazioni che ricordano film già visti, ma mi sono detta: “È il film perfetto per San Valentino, vado con il mio ragazzo e basta.”

Fin dall’inizio, una cosa è chiara: è una storia che fa piangere, poi ridere e poi ancora piangere. Fa davvero piangere (forse un po’ troppo?), ma credo che il mio coinvolgimento sia stato amplificato da un vissuto personale. La prospettiva che il regista offre sulla malattia, sul cancro, è estremamente realistica e mi ha ricordato i racconti di mia madre sulla chemioterapia, quando mio nonno ha dovuto affrontarla. Da questo punto di vista, il film è toccante, ma la sua forza sta nell’equilibrio tra la durezza della realtà e la delicatezza della poesia.

La storia segue la vita di due persone, Almut e Tobias, due millennials alla ricerca del loro posto nel mondo. Lei è una chef brillante e ambiziosa, indipendente e reduce da una relazione; lui lavora alla Weetabix, azienda di cereali per la colazione, ed è un uomo preciso, impacciato, con il bisogno di tenere tutto sotto controllo mentre affronta un divorzio. Due caratteri opposti: Almut vive il presente con calma, senza preoccuparsi troppo del futuro, mentre Tobias sogna una famiglia e un ordine preciso nella sua vita.

Il loro incontro è improbabile (niente spoiler!), ma non impossibile. Dopotutto, anche il mio ragazzo e io ci siamo conosciuti in modo piuttosto insolito: io seduta su un muretto con una ferita al tallone, lui – allora un collega di università che conoscevo appena di vista – che cercava un cerotto per aiutarmi. A volte la vita trova modi strani per farci incontrare.

Nonostante il loro incontro un po’ cinematografico, la storia che segue è straordinariamente comune. Non nel senso di banale, ma nel senso più autentico del termine: è la storia di una relazione sana, ed è proprio questo l’aspetto più interessante del film. Andrew Garfield e Florence Pugh sono perfetti nei loro ruoli e portano sullo schermo un amore fatto di ascolto, supporto reciproco, rispetto. Nessuna prevaricazione, nessuna tossicità, nessun bisogno di controllare l’altro. Anche quando le loro visioni della vita non coincidono, non c’è rabbia o frustrazione, ma dialogo. Un’utopia? Forse, considerato il panorama delle relazioni odierne, ma è confortante vedere rappresentata una storia d’amore così pura, anche all’interno di una tragedia.

La narrazione parte in medias res: Almut e Tobias sono già una coppia. Un inizio che spiazza in quanto confusionario, ma che suggerisce subito il gioco del film, fatto di piani temporali sfalsati e dettagli disseminati con cura per costruire il loro vissuto. La loro storia si dipana con naturalezza: si conoscono, si piacciono, l’attrazione è immediata, si scontrano e poi si ritrovano, capendo di essere fatti per stare insieme. Poi arriva la malattia di Almut – un cancro alle ovaie – e la loro vita si trasforma in una serie di scelte difficili. Il film non nasconde questa svolta, anzi la rende centrale, ma la malattia, anziché dividerli, li avvicina ancora di più. Tanto che, nonostante tutto, avranno una figlia.

E forse è proprio questo il cuore del film: la reciprocità. Il loro amore non è stucchevole né melenso, è fatto di quell’armonia speciale che a volte nasce tra due persone. Sono entrambi forti, indipendenti, e il loro essere coppia non annulla le loro individualità. Anche se la storia si concentra sulla malattia di Almut, sembra essere raccontata con lo sguardo di Tobias. E nonostante il tono si faccia più teso e drammatico verso la fine, il film mantiene sempre un velo di ironia, quella leggerezza necessaria per affrontare il tempo che scorre inesorabile.
Forse la cosa più sorprendente di questo film è che insegna anche un piccolo gesto quotidiano: come rompere le uova. Un’azione semplice, apparentemente banale, ma che può facilmente trasformarsi in un disastro con un movimento sbagliato. E soprattutto, per farlo nel modo giusto, serve molto meno di quanto si pensi. Un po’ come nelle relazioni: basta poco per rovinarle, ma altrettanto poco – un tocco leggero, il giusto equilibrio – per farle funzionare.

We Live in Time racconta proprio questo: possiamo pianificare ogni cosa, appuntarla su un taccuino, illuderci di avere il controllo, ma la vita troverà sempre il modo di sorprenderci

E forse il segreto è proprio questo: dedicarci al nostro tempo, viverlo senza paura, amarlo fino all’ultimo istante.

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