Con Goliarda, ma non fino in fondo
Dopo averlo rincorso per settimane – data la rapidità con cui i film d’autore vengono ormai adombrati da quelli di cassetta – qualche giorno fa sono riuscita a vedere Fuori, l’ultimo film di Mario Martone. Il regista decide qui di esplorare alcuni momenti del vissuto di Goliarda Sapienza. A interpretarla è Valeria Golino, che con la scrittrice ha ormai un rapporto intimo e viscerale, consolidato anche dalla regia dell’adattamento del romanzo L’arte della gioia. In un cinema deserto – sei spettatori totali, due dei quali io e il mio ragazzo – mi sono lasciata trasportare dal film e dalle sue dinamiche. Ma se all’inizio l’esperienza mi ha coinvolta, al termine della visione ho dovuto ricredermi: probabilmente, Fuori non mi è piaciuto fino in fondo. È un’opera molto curata, a tratti interessante, ma a mio avviso scivola su un punto cruciale: la profondità e l’autenticità del suo ritratto femminile.
Siamo nel 1980. Goliarda sta scrivendo L’arte della gioia, la sua opera più importante, rifiutata ripetutamente dagli editori. La narrazione prende le mosse dall’inizio della sua detenzione in carcere. Il motivo – un furto di una parure durante una festicciola – viene svelato solo in seguito. Il film si muove fluidamente tra il tempo della prigione e il presente post-detenzione, dove Goliarda, ormai cinquantacinquenne, cerca lavoro rispondendo ad annunci telefonici. Durante la prigionia, entra in contatto con un mondo profondamente diverso dal suo, popolato da donne segnate da vissuti difficili, legati a reati gravi. Tra loro spiccano la prorompente Roberta (Matilda De Angelis) e Barbara (interpretata da una emergente e ancora acerba Elodie).
Martone struttura la narrazione su livelli distinti. Il film suggerisce che il furto compiuto da Goliarda sia un gesto simbolico, un modo per prendere le distanze dalla Roma radical chic. Tuttavia, il film tende a mettere in secondo piano la reale motivazione economica del gesto, presente nella biografia della scrittrice. Quello che fu anche un atto di sopravvivenza, visto il rifiuto persistente dell’opera da parte degli editori, diventa qui solo un impeto esistenziale.
Si affaccia forte l’intenzione di restituire una valenza sociale e storica alla vicenda. Martone costruisce il film su nette dicotomie: il "dentro" del carcere contro il "fuori" della società borghese; la "gravità" dei crimini delle altre detenute contro la "leggerezza" del reato di Goliarda; l’alta società romana contrapposta ai margini. Questa struttura si rafforza attraverso la partecipazione della compagnia teatrale delle detenute di Rebibbia, in un tentativo – lodevole ma forse troppo didascalico – di smontare i pregiudizi e mostrare un’umanità più autentica ai margini della società. Formalmente, Fuori è ben girato e ha una struttura solida. Ma le buone intenzioni, purtroppo, non bastano a fare un grande film.
Uno degli elementi che avrei voluto vedere maggiormente approfonditi è Roma. Sebbene il film sia ambientato in un’estate calda e afosa, quasi svuotata di umanità, la Capitale resta sullo sfondo, priva della sua anima, ridotta a contenitore vuoto. Roma non è solo un "posto", - ce lo insegnano Pasolini, Melania Mazzucco, ma anche Sorrentino-, ma un mosaico di quartieri, ognuno con un’identità precisa. Chi è romano sa bene la differenza tra dire Parioli e dire Tor Bella Monaca. Questa geografia urbana avrebbe potuto arricchire la narrazione, offrire un dialogo silenzioso ma potente con la psiche dei personaggi. Invece viene trascurata, sprecando un’occasione preziosa.
Il vero problema di Fuori, per me, sta nel punto di vista. Martone, nel tentativo di raccontare il mondo interiore di una donna complessa come Goliarda Sapienza e delle donne che la circondano, cade nella trappola del male gaze.
Il caso più evidente (e fastidioso) è la scena della doccia: un nudo integrale, prolungato e completamente gratuito. Non serve alla narrazione, né alle dinamiche tra le personagge. È una scena che oggettifica i corpi femminili, riducendo due attrici, straordinarie come De Angelis, adatte come Elodie, a meri oggetti dello sguardo maschile. In questo modo, il film distoglie l’attenzione dalla complessità delle relazioni femminili che invece meriterebbero un trattamento più fine e rispettoso.
Secondo le intenzioni di Martone, quella scena voleva provare a rappresentare l'attrazione e l'erotismo tra donne, tematica ancora oggi considerata un tabù, ma ciò che ne risulta è solo una dinamica forzata, scritta “da copione”, distante anni luce dal realismo e dalla delicatezza con cui, soprattutto le registe, raccontano l’amore tra donne. Basti pensare a Ritratto della giovane in fiamme (2019) di Céline Sciamma (caso vuole che Valeria Golino sia anche su questo film nei panni della duchessa zia di una delle due donne protagoniste), dove le scene d’amore e desiderio tra le due giovani amanti sono vive, autentiche, mai gratuite. Questa mancanza di autenticità non riguarda solo quella scena, ma permea la rappresentazione di molti personaggi.
Roberta, coinvolta nella lotta armata, viene spesso ridotta allo stereotipo dell’isterica. Le sue fragilità, il suo rapporto con la droga, le sue reazioni emotive non vengono esplorati con profondità, ma catalogati. Anche Barbara rischia di rimanere un archetipo – la donna libera e sensuale del carcere – funzionale più al messaggio del regista che a una costruzione complessa del personaggio.
L’ipersessualizzazione dei corpi è evidente anche nei primi flashback: le detenute più giovani, in costume da bagno, sedute su un muretto e derise dalle più anziane, anch’esse stereotipate come “vecchie mal vissute”, invidiose della giovinezza altrui.
Le dinamiche tra Goliarda, Roberta e Barbara sono ricche e potenzialmente stratificate: amicizia, desiderio, rivalità. Ma il film le semplifica. Martone sembra privilegiare solo il conflitto fisico o verbale prorompente, come se fosse l’unico modo per rappresentare le relazioni tra donne. Basti pensare al litigio nella profumeria o agli scontri fisici – il primo giorno in carcere tra Goliarda e una detenuta, o la scazzottata al bar di Termini con Roberta– che appiattiscono la complessità del non detto, delle tensioni sottili, delle gelosie che spesso caratterizzano i rapporti tra donne.
Anche la sorellanza, inizialmente respinta, finisce per sembrare forzata o idealizzata. Goliarda, all’inizio vista con sospetto dalle altre detenute, viene poi accettata, ma il processo di avvicinamento è semplificato, lasciando poco spazio a un’esplorazione più realistica delle dinamiche di classe, potere e fiducia.
Tutte queste scelte narrative e stilistiche finiscono per avere un impatto diretto sul ritratto di Goliarda Sapienza stessa. Nonostante la sua presenza sia tangibile, la sua complessità di scrittrice, pensatrice e donna appare in parte sacrificata. Se un biopic su un autore dovrebbe far emergere il suo pensiero e il suo processo creativo, Fuori usa Goliarda più come un ponte tra i mondi delle dicotomie che Martone vuole raccontare, che come personaggio da esplorare. Le sue motivazioni profonde, la sua ricerca interiore, le sue contraddizioni non emergono con la forza e la tridimensionalità che ci si aspetterebbe da un'indagine su una figura così ricca. Il suo "fuori", il suo anticonformismo, rischiano di essere interpretati attraverso una lente che li rende meno autentici e più funzionali a una tesi preconfezionata. Curiosamente, il vero temperamento e la lucida profondità di Goliarda Sapienza emergono pienamente solo nella scena post-credit, dove Martone inserisce una sua vera intervista televisiva tenuta durante un programma di Enzo Biagi. Qui, la scrittrice si rivela nella sua autentica vitalità, intelligenza e acume, un contrasto lampante con la versione a tratti semplificata e "piegata" che abbiamo visto nel corso del film. È un momento che, per paradosso, evidenzia ancor più ciò che il film, nonostante gli sforzi, non è riuscito a restituire.
Ma cosa, invece, meriterebbe ascolto, spazio e profondità?
Questa è la domanda che rimane sospesa, usciti da Fuori. Il film ha il merito di portare sotto i riflettori una figura come Goliarda Sapienza, ancora oggi troppo poco conosciuta dal grande pubblico. La sua vicenda, i suoi scritti e il suo pensiero anticonvenzionale avrebbero meritato – e forse ancora meritano – una narrazione cinematografica che vada oltre il didascalico, il binario, l’estetico. Martone tenta una lettura profonda ma inciampa laddove la voce delle donne avrebbe dovuto guidare la regia e la scrittura. Il suo sguardo, per quanto sensibile e curato, resta comunque esterno, maschile, talvolta distante. È uno sguardo che osserva, talvolta ammira, ma che raramente riesce ad abitare davvero la complessità del femminile. Certo, c’è del valore in questo film: nella scelta di lavorare con le detenute reali, nell’intenzione di abbattere stereotipi sociali, nella volontà di aprire uno squarcio su storie che difficilmente trovano spazio sul grande schermo. Ma tutto questo rischia di essere annacquato da scelte registiche che, pur ben confezionate, finiscono per depotenziare il messaggio. Forse non è un caso che il momento più autentico sia proprio quello in cui Martone "si fa da parte", e lascia che sia Goliarda a parlare in prima persona, con la sua voce reale.
Lì, lo spettatore smette di guardare un personaggio per incontrare finalmente una donna.
E lì, anche solo per qualche minuto, si capisce quanto di più avrebbe potuto – e dovuto – essere raccontato.
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